Hotdog: delizie inaspettate a Copenaghen

L’ultima cosa che mai avrei immaginato è scrivere di hotdog dopo un weekend a Copenhagen. La capitale vanta, infatti, ben ventiquattro stelle Michelin conferite a quattordici ristoranti.

Che il fascino del fine dining sia in decadenza ce ne eravamo già accorti a gennaio 2023 con il fallimento del celebre Noma. Per quanto nominato cinque volte miglior ristorante del mondo, il tristellato ha dovuto fare i conti con la profittabilità del suo business, nonostante i 500 euro a pasto, e ha ceduto all’insostenibilità etica dello sfruttamento di lavoro non retribuito.

Eh sì, nel nord Europa non è tutto oro quello che luccica, non dimentichiamocelo!

Ma veniamo a noi e ai nostri hotdog.

Atterro all’aeroporto alle ore 21 di un venerdì d’inizio inverno e, benché l’ora sia tarda per essere in un paese nordico e i negozi siano in fase di chiusura, il prepotente profumo di salsicce calde dei food trucks ancora aperti mi dà il benvenuto.

C’è, infatti, un chiosco di hotdog accanto allo sportello del cambio valuta e osservo numerosi passeggeri che si dirigono ai loro gates con un hotdog in mano lasciando una scia saporita e affumicata alle loro spalle.

Ah, quindi è vero che i Danesi amano gli hotdog!

il chiosco di hotdog vicino alla stazione di Copenaghen
crediti foto Marialaura Pompilio

Gli hotdog in Danimarca.

La storia delle salsicce in questo paese è più complessa di quello che sembra.

Infatti, gli hotodog, resi famosi in Germania durante la Prima Guerra Mondiale, hanno fatto la loro comparsa in Danimarca subito dopo. Tuttavia, solo nel 1920 il primo venditore ufficiale è stato accettato ufficialmente.

Inizialmente, le licenze dei carretti ambulanti per vendere hotdog dopo l’orario di chiusura dei ristoranti furono tutte respinte.

In primis, per la preoccupazione delle autorità di ritrovarsi in città trafficate e indecorose a causa del mangiare per strada. In secondo luogo, perché i ristoranti tradizionali, temendo la concorrenza, fecero pressioni contro queste richieste.

Ricordiamoci che all’epoca la salsiccia era un bene di lusso e non tutti potevano permettersela. Ciò nonostante, gli hotdog divennero un vero e proprio boom negli anni ‘30 che consentì l’improprio arricchimento di un gruppo di pochi grossisti che arrivarono a guadagnare sei volte di più rispetto al salario medio dell’epoca. 

Nel 1942, per far fronte a tale spietata concorrenza, alcuni commercianti si unirono, chiesero e ottennero la revisione delle leggi sui vans.

Le nuove leggi prevedevano che i venditori di hotdog fossero lavoratori autonomi e ottenessero permessi individuali per vendere i loro prodotti in un punto preciso della città. Tuttavia, nella Danimarca degli anni ’40, poteva essere lavoratore autonomo solo chi si dimostrava o disabile o incapace di svolgere un lavoro normale.

salsicce per Hotdog
foto Canva

Questa drastica innovazione ha ridisegnato il panorama di questo prodotto a Copenaghen: ne ha trasformato la vendita da un semplice lavoro a una sfida di marketing personale.

I commercianti iniziarono a prestare maggiore attenzione alla loro attività e alla personalizzazione delle loro salsicce. Questo è anche il motivo per cui la maggior parte dei furgoni oggi si chiamano “Lone’s Sausages”, “John’s Hotdog Deli” o “Harry’s Place”.

Negli anni ’50, la capitale vantava addirittura 400 carretti ambulanti.

Nel corso del tempo, la diffusione del fast food americano e l’evoluzione di una cucina sempre più sofisticata hanno rappresentato ulteriori minacce per “le salsicce ambulanti” e il numero è diminuito notevolmente (oggi se ne contano circa cinquanta).

Tutti si concedono un hotdog.

Eppure resistono, e sapete perché?

Non soltanto è uno dei pochi luoghi in cui i danesi, tipicamente riservati, ancor oggi intavolano conversazioni tra estranei, fenomeno sempre più raro nella società individualista in cui viviamo.

Ma anche perché non esiste gerarchia sociale tra i clienti: tutti sono trattati allo stesso modo, che siano politici di spicco, lavoratori di quartiere o turisti stupiti. Quasi tutti si concedono un hotdog, conferendo ai venditori danesi una reputazione di gentilezza e incredibile tolleranza.

Copenaghen di sera, vista sul canale
Copenaghen – foto Canva

L’hotdog biologico del DØP.

Alle tre del pomeriggio della domenica del mio weekend ottobrino, dopo aver provato il giorno precedente sia un ristorante menzionato dalla guida Michelin sia un’altra prelibatezza della cucina danese, lo Smørrebrød, mi sono diretta al DØP, Den Okologiske Polsemand (l’hotdog biologico), vicino al Rundetaarn, una torre del XVII secolo nel centro della città.

È uno dei chioschi pluripremiati e non vedevo l’ora di provarlo.

Il food track in questione offre una grande varietà di salsicce, la cui classica è quella rossa, “la viennese”.

Ce ne sono alcuni che arrivano a proporne fino a dodici tipi. Non tutte sono disponibili a quell’ora e quindi ho chiesto consiglio al venditore, un giovane cordiale e disponibile.

Ho optato per una salsiccia al formaggio e spezie con tutti condimenti classici: rémoulade, una salsa (francese) a base di maionese amata dai danesi, cipolle fritte, cipolle fresche, senape, e cetriolo sottaceto.

Il ragazzo mi ha guardato soddisfatto dicendomi che avevo rispettato i veri condimenti danesi. Sì, proprio come noi in Italia discutiamo su come preparare una lasagna, anche loro hanno le loro dispute su come assemblare il vero hotdog danese.

Da quando poi mangiare biologico è diventata una priorità, sono emersi numerosi hotdog gourmet, vegani e alternativi.

l'hotdog vegano
crediti foto: Marialaura Pompilio

Il DØP ha raggiunto la popolarità anche per questo: gli hotdog sono serviti con pane a lievitazione naturale (a meno che non optiate per quello senza pane, una salsiccia con condimenti e salse in una scatola), e offre diverse opzioni di salsiccia vegana.

Prezzo? 6 euro. Soddisfatta? Pienamente, e credo sia stato il miglior pasto che abbia fatto a Copenhagen.

Il giorno precedente, una breve passeggiata verso nord mi ha portato a Torvehallerne, un mercato alimentare ricco di prodotti internazionali: olive, tapas, sushi, salumi, fish and chips, e un sacco di frutti di mare e pescato freschissimo, nonché i delicati panini danesi aperti che menzionavo prima (Smørrebrød).

Nonostante l’ampia varietà di sapori che offre la città, mi stupisco ancora di come la storia e la cultura di un paese emergano anche in un semplice panino con salsiccia, apparentemente insignificante, che al primo morso apre un mondo intero da scoprire.

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Marialaura non è una cuoca e non è laureata in scienze enogastronomiche. È un po’ quella pecorella nera che dall’arida finanza lussemburghese riversa la sua creatività e il bisogno di emozionarsi davanti a del buon cibo. Perciò, tra i freddi numeri con cui lavora, lei predispone, in maniera totalmente innata, la sua quotidianità all’insegna di piatti e posti nuovi da provare, di ristoranti in cui sentirsi a casa, di luoghi e storie da raccontare, risvegliando quel desiderio di condivisione e di trasmissione del bello che la sua terra, la Puglia, le ha insegnato.

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